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Houston,
avete un problema! |
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La capsula che perse la strada
Secondo la leggenda che la NASA ci ha raccontato tramite i suoi filmati
e le sue immagini, dopo ogni missione sulla Luna le “
capsule
Apollo” con gli astronauti a bordo rientravano sulla Terra
ammarando nell’Oceano Pacifico. Una delle cose che consentivano
alle capsule di non bruciare al rientro nell’atmosfera terrestre
erano gli strati di “
protezione termica” di cui ogni
capsula era dotata.
Non molti conoscono però la storia che qui si va a raccontare:
nel 1970, una capsula priva di astronauti e senza la minima protezione
termica fu recuperata da marinai sovietici nelle acque atlantiche del
Golfo di Biscaglia. La vicenda – rimasta sconosciuta per quasi 40
anni al pubblico occidentale – è stata raccontata e documentata
in
questo
articolo da Mark Wade, direttore e fondatore della
Encyclopedia
Astronautica.
La storia venne alla luce qualche anno fa, quando Nandor Schuminszky,
un ungherese appassionato di storia dei viaggi spaziali, contattò
Wade inviandogli una stupefacente fotografia, reperita in un giornale
ungherese del 1970, la cui didascalia recitava:
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“Murmansk (porto
sovietico): una capsula Apollo viene consegnata ad alcuni delegati
americani. [La capsula] è stata recuperata da alcuni pescatori
sovietici nel Golfo di Biscaglia. Foto: Agenzia di stampa ungherese.
Data: 8 settembre 1970”. |
Nel suo articolo, Wade racconta come, incuriosito da questa vicenda, avesse
poi contattato Schuminszky per saperne di più, essendo la vicenda
del tutto ignota ai registri della NASA e ai media occidentali. Secondo
il giornale ungherese, la capsula sarebbe stata recuperata da un peschereccio
sovietico e poi consegnata agli americani, in gran pompa e alla presenza
di numerosi giornalisti, l’8 settembre 1970. La consegna avvenne
nel porto sovietico di Murmansk, sul Golfo di Kola. Subito dopo la capsula
recuperata venne caricata sulla “
Southwind”, una
nave della Guardia Costiera statunitense, per essere riportata in patria.
Stando a quanto riporta il sito russo
novosti-kosmonavtiki,
gli esperti che poterono esaminare la capsula dichiararono: “
Si
trattava di un modello in spesso acciaio galvanizzato, ricostruito molto
accuratamente e privo di segni di corrosione. Il peso, le dimensioni e
la configurazione del modulo di comando erano quelle delle capsule Apollo.
[Con l’eccezione di] un faro luminoso di ricerca [...] e del fatto
che gli scudi termici non erano presenti. Tutto era molto semplificato”.
Gli americani chiamavano boilerplates queste “
finte capsule”
da esercitazione e le utilizzavano di frequente. Ad esempio la capsula
BP-1204 (BP sta appunto per “
Boiler Plate”) venne
utilizzata per esercitazioni a Rota (Spagna), la BP-1205 a Yokosuka (Giappone),
la BP-1223 nelle Isole Azzorre, e così via. Fino ad oggi tuttavia,
nulla vi era di registrato riguardo al Boilerplate BP-1227, cioè
la capsula recuperata dai sovietici nel Golfo di Biscaglia e poi riconsegnata
agli americani nel porto di Murmansk alla quale si riferisce questa documentazione.
Per ovvie ragioni, il pubblico sovietico non venne mai informato con ampiezza
di dettagli sul programma spaziale americano. Lo stesso articolo di “
novosti-kosmonavtiki”
scrive: “
La storia ufficiale (ma anche quella non ufficiale)
del programma Apollo è rimasta poco conosciuta in Unione Sovietica
fino a tempi molto recenti”. L’unica eccezione è
appunto l’episodio di Murmansk, che venne a suo tempo ampiamente
pubblicizzato dalla stampa ungherese. Ma non dai media occidentali, che
rimasero stranamente silenziosi. Silenziose sui fatti di Murmansk rimasero
anche le riviste scientifiche russe, solitamente abituate a presentare
con ricchezza di dettagli ogni minimo aspetto del programma spaziale sovietico,
come anche le alte autorità preposte a tale programma. La vicenda
fu poi dimenticata fino a pochi anni fa, quando l’acribia di Nandor
Schuminszky la riconsegnò agli onori della cronaca.
Da questa vicenda è possibile trarre alcune conclusioni:
1) Risulta a questo punto evidente l’esistenza di un accordo tra
le autorità sovietiche e quelle americane riguardo al programma
Apollo. I sostenitori dell’autenticità delle missioni lunari
sostengono spesso che, se tali missioni fossero state una messinscena,
i sovietici avrebbero certo colto l’occasione per denunciare la
truffa al mondo intero. Questa argomentazione, oltre a rivelare una concezione
incredibilmente puerile dei rapporti geopolitici e diplomatici tra le
superpotenze, è a questo punto smentita anche dai fatti. I russi
non solo non ostacolarono il programma spaziale americano, ma lo favorirono,
tacendo, se del caso, su alcune vicende, come quella di Murmansk, che
per gli Stati Uniti sarebbero state oltremodo imbarazzanti.
2) Il fatto che la vicenda fosse imbarazzante per gli USA è confermato
dal fatto che né i media americani né quelli di altri paesi
del blocco occidentale fecero la minima menzione dell’accaduto.
3) E’ assai probabile che l’imbarazzo degli USA avesse molto
a che fare con la fallita missione dell’Apollo 13, che fu l’unica
missione Apollo ad essere lanciata nel 1970.
Ma quali possono essere le attinenze tra la missione dell’Apollo
13 e quanto avvenuto tra il Golfo di Biscaglia e il porto di Murmansk?
Proviamo ad esaminare alcuni fatti per cercare di farcene un’idea.
Il segreto sulla data
Solitamente i registri NASA sono molto scrupolosi nell’annotare
le date e perfino gli orari di tutto ciò che attiene alle missioni
o alle esercitazioni connesse con il programma spaziale. Che si tratti
delle piccole sonde “Surveyor” o dei giganteschi
razzi Saturn V, le cronache della NASA riportano minuziosamente
le date di ogni evento, di ogni incontro tecnico, di ogni fase progettuale.
Risulta quindi piuttosto curioso il fatto che Mark Wade, nel redigere
il suo articolo, non abbia pensato per prima cosa di rivolgersi alla
NASA per avere informazioni sui fatti di Murmansk. I link alle pagine
NASA sono innumerevoli nella Enciclopedia Astronautica da lui
gestita. Perché allora Wade, anziché cercare delucidazioni
alla fonte, si è limitato a raccogliere testimonianze attraverso
internet?
All’appello di Wade hanno risposto alcuni marinai che erano a
bordo della “Southwind”, i quali hanno inviato
alcune suggestive foto della loro escursione a Murmansk: immagini di
orsi polari, di spesse coltri di ghiaccio attraversate dalla nave americana,
alle quali Wade ha aggiunto 4 foto della capsula Apollo, tre delle quali
sono perfettamente identiche. Delle 27 foto pubblicate da Wade, solo
6 si riferiscono al recupero della BP-1227, tutte le altre sono inserite
come riempitivo e danno l’impressione di voler allungare il brodo
per parlare il meno possibile del nucleo centrale della vicenda, trasformandola
in un reportage in stile National Geographic sul turismo d’antan.
L’articolo di Wade non aggiunge assolutamente nulla a quanto era
già stato detto dagli ungheresi e dà l’impressione
di voler sviare quanto più possibile l’attenzione del lettore
da fatti essenziali che il pubblico non dovrebbe conoscere.
Particolarmente grave è la reticenza di Wade riguardo alle date.
Sappiamo che la capsula fu riconsegnata agli americani l’8 settembre
1970. Ma in quale data essa venne recuperata dai sovietici nel Golfo
di Biscaglia? E da chi? E come? E in quali circostanze? E soprattutto:
come aveva fatto quella capsula ad arrivare lì?
Ciò che Wade scrive è molto vago: “Nei primi
mesi del 1970, unità navali di stanza in Inghilterra stavano
esercitandosi nel recupero di una capsula “boilerplate”
dell’Apollo (BP-1227), nell’ambito della missione loro assegnata
di recuperare le capsule in caso d’interruzione d’emergenza
della missione o di un ritorno a Terra. La capsula scomparve in mare.
Le circostanze in cui la capsula andò perduta sono tuttora poco
chiare. Non si sa se il “peschereccio sovietico” che incrociava
nelle vicinanze fosse in realtà una nave spia e se la capsula
sia stata recuperata nell’ambito di una operazione dei servizi
segreti”.
Solitamente, quando le navi militari americane si trovano ad operare
in una qualsiasi zona del mare, esse trasmettono, su apposita frequenza,
la propria posizione a tutte le imbarcazioni civili e militari della
zona, affinché possano sgomberare l’area. E’ dunque
assai improbabile che un “peschereccio”, oltretutto
sovietico, potesse trovarsi per puro caso a passare da quelle parti.
Da questo punto di vista, Wade ha sicuramente ragione a sospettare un’operazione
d’intelligence. Il fatto che nessuna indicazione sia mai stata
fornita circa il “peschereccio” che avrebbe recuperato
la capsula è di per sé eloquente. Inoltre, il “mascherare”
da pescherecci le proprie imbarcazioni-spia è antica consuetudine
non solo dei russi, ma anche degli americani e dei britannici.
Wade ha sicuramente svolto bene i suoi compiti a casa: ha consultato
gli archivi ed è riuscito ad identificare la provenienza delle
navi, il contesto generale della vicenda, la perdita della capsula e
la faccenda del peschereccio-spia. Ma allora perché non dice
nulla riguardo alla data di questi avvenimenti? Dopo tutto, è
difficile che i registri della marina riportino genericamente, come
data di un evento, i “primi mesi” di un dato anno;
solitamente riportano con esattezza mese, giorno, ora e minuti. Tutto
questo fa pensare che indicare in modo esatto la data del recupero della
capsula possa rappresentare per gli Stati Uniti una fonte di imbarazzo
o di grave pericolo.
Inoltre, supponendo che il peschereccio fosse in realtà una nave-spia
sovietica, viene da chiedersi come mai gli americani non siano prontamente
intervenuti per bloccarne le attività. Le esercitazioni di recupero
avvenivano con navi che avevano a disposizione aerei ed elicotteri per
l’intercettazione, che avrebbero potuto facilmente identificare
la nave sovietica ed indurla a desistere dalle operazioni.
Capsule spaziali e sottomarini
Facciamo una supposizione: immaginiamo che il momento in cui si verificarono
questi avvenimenti fosse la notte fra l’11 e il 12 aprile 1970,
cioè poche ore dopo il lancio della missione Apollo 13
da Cape Canaveral, avvenuto l’11 aprile 1970 alle 19.13 GMT. Immaginiamo
che la capsula da recuperare non fosse una semplice capsula da esercitazione,
ma la stessa capsula dell’Apollo 13, appena partita poche
ore prima per una finta missione lunare che avrebbe tenuto per diversi
giorni il mondo con il fiato sospeso. Supponiamo tutto questo e vediamo
se da questa ipotesi scaturiscono conseguenze utili a dare un senso
a tutta questa storia.
In questa
pagina di Wikipedia si parla del disastro del sottomarino
nucleare sovietico K-8, incendiatosi nel Golfo di Biscaglia l’8
aprile 1970. Il sottomarino era impegnato nelle esercitazioni navali
sovietiche note come “Okean-70” e avrebbe dovuto
tornare alla base il 10 aprile. Wikipedia ci informa che i
tentativi di riprendere il controllo del sottomarino durarono fino al
12 aprile, giorno in cui il sottomarino affondò, provocando la
morte di 52 marinai russi. 73 furono i sopravvissuti. Quello che a noi
interessa è il fatto che, secondo Wikipedia, i tentativi
di salvare il sottomarino avvennero “in stormy conditions”,
cioè in condizioni meteorologiche proibitive. Per essere un po’
più precisi, vediamo cosa si racconta in questo
articolo russo, tratto dal sito sexik.narod.ru, sul disastro del
K-8:
“[L’11 aprile] le condizioni meteorologiche iniziarono
a peggiorare. Il Golfo di Biscaglia è una zona nota ai marinai
per le sue tempeste di incredibile potenza. Ora l’equipaggio doveva
lottare anche contro la furia degli elementi. […] A causa di onde
enormi e di bufere di neve, il tentativo di salvataggio [della nave
inviata in soccorso, NdT] fallì. Si decise così di aspettare
l’alba […] Al mattino [del 12 aprile, ndT] comparvero anche
gli aerei da ricognizione della marina americana”.
Ora, la tragedia del K-8 potrebbe intanto spiegare la presenza di navi
russe nel Golfo di Biscaglia e la relativa intercettazione della BP.1227.
Inoltre, se è vero che le condizioni meteorologiche, nella notte
tra l’11 e il 12 aprile, erano così proibitive, si capirebbe
per quale motivo gli aerei e gli elicotteri americani non poterono intervenire
per impedire ai sovietici di appropriarsi della capsula. Le “bufere
di neve” di cui parla l’articolo russo potrebbero spiegare
per quale motivo la capsula non potè essere individuata dalle
navi americane nonostante il faro di segnalazione di cui essa era dotata
secondo la novosti-kosmonavtiki. Insomma, se supponiamo che
la cattura della capsula da parte dei sovietici sia avvenuta poche ore
dopo il lancio dell’Apollo 13, molte cose diventano più
chiare. Compresa la reticenza dei mezzi d’informazione americani
a parlare dell’accaduto e le strane omissioni di Wade.
L’articolo poc’anzi citato afferma che al mattino del 12
aprile nel Golfo di Biscaglia “comparvero gli aerei da ricognizione
americani”. Il tempo, evidentemente, era migliorato. Gli
americani stavano probabilmente cercando la capsula, che però
era sparita senza lasciare traccia, dopo essere stata recuperata dalle
navi sovietiche. Non c’è da stupirsi che la capsula non
presentasse “tracce di corrosione”, visto che era
rimasta nell’acqua del mare per un tempo assai breve. Possiamo
solo immaginare quali giochi di ricatti incrociati, di richieste e promesse
di silenzio abbiano avuto luogo nei giorni e nei mesi successivi. Sappiamo
però che si giunse, evidentemente, ad un qualche tipo di accordo
che portò alla riconsegna della capsula agli Stati Uniti nel
settembre dello stesso anno.
Se la vicenda fosse avvenuta in qualunque altro periodo dell’anno,
gli americani avrebbero potuto facilmente costringere le disarmate navi-spia
sovietiche a restituire la capsula Apollo. Solo 10 mesi prima,
in occasione del lancio dell’Apollo 11, la flotta americana
aveva costretto le navi-spia sovietiche (camuffate, tanto per cambiare,
da pescherecci) che si trovavano al largo della Florida per tenere d’occhio
le procedure di lancio da Cape Canaveral a ritirarsi in buon ordine.
Ma, sfortunatamente per gli americani, la cattura della BP-1227 era
avvenuta lontano da casa, nel bel mezzo delle manovre militari di “Okean-70”
e dunque in presenza di dozzine di navi da guerra sovietiche.
Per tutti questi motivi, è assai verosimile ritenere che i fatti
di cui tratta l’articolo di Wade siano avvenuti nella notte tra
l’11 e il 12 aprile 1970. Il mondo si apprestava a trascorrere
giorni di palpitazione per la sorte di tre astronauti che si trovavano
già al sicuro in qualche installazione della NASA, mentre la
loro navicella, che tutti credevano ancora in viaggio per la Luna, aveva
appena subito una inaspettata deviazione di percorso per essere dirottata
verso il porto sovietico di Murmansk.
Strane esercitazioni
Secondo l’articolo di Wade, le navi americane nel Golfo di Biscaglia
“stavano esercitandosi nel recupero di una capsula “boilerplate”
dell’Apollo”. Questa affermazione genera diversi interrogativi.
1) Se davvero queste esercitazioni erano una pratica comune, allora
perché tanto gli americani quanto i sovietici hanno tenuto nascosta
la data delle operazioni (che ancora oggi Wade definisce con vaghezza
“in early 1970”)?
2) Perché questa presunta esercitazione avvenne (se sono vere
le ipotesi avanzate fin qui) in concomitanza con il lancio dell’Apollo
13?
3) Come fece la capsula Apollo ad arrivare nel Golfo di Biscaglia? E’
difficile pensare che sia emersa dal fondo marino o che sia stata lasciata
lì da una nave di passaggio. Ovviamente deve essere precipitata
dal cielo. L’unica incognita è: da quale altezza? Su questo
fondamentale argomento tanto Wade quanto la NASA, tacciono.
4) Cosa sono quelle strane macchie visibili sulla capsula recuperata
nel Golfo?
Nella foto qui sopra vengono messe a confronto la capsula dell’Apollo
13 recuperata dopo la “
missione sulla Luna” e la
capsula “
catturata” dai sovietici. Su entrambe si
notano le caratteristiche “
macchie bianche” che,
nelle intenzioni della NASA (immagino) dovrebbero provare la corrosione
subita durante l’impatto con l’atmosfera. Strano che esse
siano presenti anche su una capsula il cui unico impatto era stato quello
con la superficie marina. Sarà stata la salsedine?
5) Perché mai proprio il Golfo di Biscaglia era stato scelto come
teatro per questo tipo di “
esercitazioni”? Secondo
la NASA, le capsule Apollo ammaravano nell’Oceano Pacifico. Il Golfo
di Biscaglia si trova nell’altro emisfero e non è mai stato
indicato come punto di possibile splashdown delle capsule. Perché
allora fare “
esercitazioni” proprio lì?
In generale, il tentativo della NASA e di Wade di ridurre tutta questa
faccenda ad un errore nelle esercitazioni militari è assai poco
convincente. Tutto fa pensare che non fosse affatto un’esercitazione:
le navi americane si trovavano nel Golfo di Biscaglia, la notte fra l’11
e il 12 aprile 1970, per recuperare la capsula dell’
Apollo 13.
Da Cape Canaveral, quell’11 aprile, alle ore 19.13 GMT, era stato
lanciato nient’altro che un modellino di capsula, vuoto e senza
nessun astronauta dentro. Solo che anziché volare sulla Luna e
poi ammarare nel Pacifico, per qualche motivo la capsula era finita nell’Atlantico,
al largo delle coste europee.
E’ probabile che la zona del Golfo di Biscaglia fosse stata scelta
in origine per eludere la costante sorveglianza navale dei sovietici al
largo delle coste americane. Dopotutto, non era possibile – o perlomeno
era molto fastidioso – dover allontanare tutte le volte le navi-spia
russe dalla zona di recupero delle capsule con le armi in pugno. Si era
dunque pensato ad un ammaraggio in una zona meno sorvegliata dall’intelligence
russo, a 6000 km. di distanza, dall’altra parte del globo, non troppo
lontano dalle coste di un alleato strategico degli Stati Uniti come l’Inghilterra
(Wade ci informa infatti che le navi americane che parteciparono alle
operazioni erano “
di stanza in Inghilterra”). Il
Golfo di Biscaglia era una zona frequentemente colpita dalle tempeste,
per cui le navi civili se ne tenevano alla larga e anche le navi-spia
sovietiche la frequentavano di rado. Certo, c’erano le navi sovietiche
impegnate nelle esercitazioni di Okean-70, ma le esercitazioni avevano
carattere globale e una zona come il Golfo, spazzata dalle tempeste, era
tra tutti i posti quello in cui era forse possibile sperare di avere i
russi un po’ meno tra i piedi. Non fosse stato per l’incidente
del K-8, che, anziché rientrare alla base il 10 aprile, come era
nelle previsioni, richiamò una quantità di navi russe nel
Golfo nel tentativo di portare soccorso…
Problemi di peso
Secondo la NASA, la navicella spaziale Apollo 13 effettuò un giro
e mezzo attorno alla Terra, quindi il motore del terzo stadio viene riacceso
per immetterla su un'orbita di trasferimento verso la Luna. Stando invece
a quanto racconta A. I. Popov in “
Americani sulla Luna: grande
impresa o truffa?”, la navicella Apollo non andò in
orbita da nessuna parte. L’Apollo venne lanciato da Cape Canaveral
in direzione est, sotto gli occhi di migliaia di spettatori. Ma nessuno
potè vedere dove andava a finire. Deviando la traiettoria del razzo
di poche decine di gradi, il volo avrebbe potuto facilmente concludersi
nel Golfo di Biscaglia. La deviazione poteva facilmente aver luogo dopo
che il razzo era scomparso dalla visuale degli spettatori. In questo caso,
secondo Popov, la deviazione fu eseguita in modo che il missile volasse
a circa 100 km. di altitudine e a una distanza fra i 300 e i 700 km. dalle
coste americane.
Sui suoi siti web, la NASA fornisce una quantità di informazioni
tecniche sulle capsule
Apollo. Apprendiamo, ad esempio, che il
modulo di comando dell’Apollo 13 era un cono tronco di circa 3,65
metri di altezza e 3,9 metri di diametro alla base, con un volume di circa
6,17 metri cubi e un peso di 5,7 tonnellate. Il modulo di servizio (cioè
la struttura cilindrica connessa al modulo di comando che conteneva i
sistemi di propulsione) pesava circa 23 tonnellate, carburante e materiali
inclusi. Il LEM altre 22 tonnellate circa. Eccetera eccetera. Nel complesso,
il razzo
Saturn V, utilizzato per mandare in orbita tutto questo
apparato necessario alle missioni lunari, aveva una portata di 120-130
tonnellate.
Ora, Popov sostiene nel suo libro che gli americani non sarebbero mai
riusciti, in realtà, a sviluppare un razzo in grado di portare
in orbita tutto questo carico. Avrebbero semplicemente perfezionato il
vecchio modello di
Saturn 1 in un più moderno
Saturn-1B,
che aveva tuttavia una portata di carico di non più di 15 tonnellate.
Il
Saturn-1B sarebbe poi stato ricoperto con un pesantissimo
rivestimento che lo faceva apparire come un razzo più potente e
moderno. In realtà questo rivestimento pesava molte tonnellate,
tanto che il razzo non avrebbe potuto, a questo punto, neppure andare
in orbita. Non era necessario, del resto. Le capsule trasportate erano
poco più che decorative, prive di astronauti e molto simili a quella
ripescata nel Golfo di Biscaglia: non più di una tonnellata di
peso (cioè quasi 1/6 di una capsula standard) e con uno spessore
delle pareti di circa 5 mm. Scopo essenziale del razzo era di portare
tutto questo apparato, per così dire, fuori dalla visuale e farlo
ammarare lontano da occhi indiscreti, affinché il “
recupero
della capsula” potesse poi essere messo in scena al momento
giusto. Naturalmente la capsula, non avendo persone a bordo, non aveva
bisogno di nessuna protezione termica, che avrebbe aggiunto solo inutile
peso al carico da trasportare. Ed ecco che ci troviamo di fronte ad una
capsula “
priva di rivestimento termico” come quella
ripescata nel Golfo e poi descritta dagli esperti.
Il portellone cangiante
Il lancio da Cape Canaveral verso la Luna passava attraverso varie fasi.
Gli “
astronauti” salivano sull’ascensore che
li portava verso il modulo di comando, sfilando di fronte a giornalisti
e spettatori estasiati. Una volta saliti in cima, a 111 metri d’altezza,
entravano nel “
boilerplate” dove nessuno poteva vederli,
tranne un piccolo e selezionato gruppo di reporter e dipendenti NASA.
Nei filmati NASA, la scena dell’ingresso nella capsula dura sempre
solo 2 o 3 secondi. E la qualità dei filmati è tale che
non si riesce a vedere cosa ci sia all’interno della cabina. Si
vede solo il portellone aperto, che è quello indicato qui sotto
dalla freccia.
E’ importante notare che questo portellone è rettangolare
e privo di “
oblò” (proprio come nella “
capsula
di Biscaglia”); mentre nei filmati del “
recupero”
nel Pacifico, il portellone della capsula presenta angoli arrotondati
e un oblò ben visibile (vedi figura più sopra). Dunque,
gli “
astronauti” entravano nella capsula “
boilerplate”,
col portellone rettangolare e senza oblò, e al momento del recupero
nel Pacifico uscivano da una capsula più robusta, con oblò
e portellone ad angoli tondeggianti. Un numero degno dei migliori prestigiatori
di cabaret.
Dopo aver allontanato i fastidiosi testimoni, gli astronauti venivano
fatti uscire dalla capsula e portati in una zona precedentemente stabilita,
dove sarebbero rimasti nascosti fino al termine della “
missione”.
Di tempo ce n’era più che a sufficienza, visto che fra l’ingresso
nella capsula e la partenza passavano sempre diverse ore. Dopo la partenza,
il razzo privo di equipaggio era pronto per volare sul Golfo di Biscaglia.
Polvere lunare
Secondo la NASA, la navicella Apollo 13 diretta verso la Luna era composta
di3 elementi: il modulo lunare (o LEM), la capsula (o modulo di comando)
e il modulo di servizio.
Il 13 aprile, quando la navicella si trovava in prossimità della
Luna, si sarebbe verificata un’esplosione dovuta ad un guasto elettrico
in uno dei serbatoi dell’ossigeno del modulo di servizio. Ciò
avrebbe provocato la perdita di entrambi i serbatoi d’ossigeno e
il default del sistema elettrico, costringendo l’equipaggio a spegnere
tutti i sistemi del modulo di comando per conservare l’energia e
l’ossigeno necessari alle ultime ore di volo e a rifugiarsi nel
LEM durante il viaggio di ritorno verso la Terra.
Prima di fare rotta verso la Terra, gli astronauti si separarono dal modulo
di servizio danneggiato e lo immortalarono in una celebre fotografia.
Qui sopra vengono messe a confronto la foto originale con una versione
nella quale sono stati incrementati la luminosità e il contrasto.
Nell’angolo in alto a destra compare un oggetto squadrato, circondato
da un alone luminoso. Si tratta del tipico alone che sulla Terra è
dovuto alle particelle di polvere che rifrangono la luce. Trattandosi
di una foto scattata nello spazio, non dovrebbero esservi né particelle
di polvere, né aloni, né oggetti angolari. La luce, nella
fotografia, proviene proprio dalla direzione in cui compare l’alone,
come dimostrato dalla posizione dell’ombra nel propulsore. Tutto
fa pensare, insomma, che si tratti di una fotografia scattata in studio,
sulla Terra, utilizzando un modellino e una fonte di luce artificiale,
di cui l’oggetto quadrangolare visibile in alto a destra rappresenta
probabilmente il supporto o uno dei supporti.
La missione
Apollo 13 doveva probabilmente servire alla NASA
per allontanare da sé i sospetti di falsificazione delle missioni.
Poteva infatti apparire poco credibile al grande pubblico che una serie
di missioni umane sulla Luna, in un ambiente sconosciuto, con strumenti
e mezzi che in precedenza non erano mai stati testati, filassero sempre
perfettamente lisce, senza mai incontrare neppure l’ombra di un
intoppo. Si decise così di organizzare una missione “
non
riuscita”, una sorta di “
thriller” che
tenesse gli spettatori incollati alla TV, riaccendesse l’interesse
per le missioni e rendesse più umana e credibile l’epopea
spaziale. Era stato naturalmente progettato anche l’immancabile
lieto fine, che avrebbe soddisfatto il pubblico ed evitato orribili figuracce
internazionali all’ente spaziale americano.
Tutta questa splendida sceneggiatura rischiò di andare a monte
a causa di un evento non previsto né prevedibile: la catastrofe
(autentica) di un sottomarino sovietico che portò molte navi militari
russe ad incrociare proprio nelle acque in cui la capsula doveva essere
recuperata. E’ curioso anche notare come, proprio a partire dal
1970, le interferenze russe col programma spaziale americano vadano rarefacendosi
fino a scomparire. Certo, l’URSS aveva ormai altre gatte da pelare,
come la scarsa produzione di cereali che dall’inizio degli anni
’70 la rendeva sempre più dipendente dalle importazioni dall’estero
(si sarà parlato anche di questo durante le trattative per la restituzione
della capsula?). Ma può anche darsi che la spiegazione sia più
semplice: nel 1970 i russi poterono finalmente guardare nella splendida
scatola del programma spaziale americano, che tanto li aveva preoccupati
e impegnati negli anni precedenti, e scoppiarono in una fragorosa e liberatoria
risata. Dopotutto, i russi sono un popolo che, all’occasione, sa
mostrare un prorompente senso dell’umorismo.